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Istituto Di Ricerca e Formazione – Giorgio Magnano MD – Vittorio Magnano DDS, MSc, BSc

Il senso occlusale positivo – un caso di coscienza (terza parte): sintomatologia

Giorgio Magnano e Vittorio Magnano

 In sintesi i principali sintomi riferiti dai pazienti sono:        

 Sensazione duratura di contatti dentali prematuri o mancanti; interferenze dentali durante i movimenti della mandibola; scivolamenti durante la massima intercuspidazione;  chiusura dei denti non idonea; sensazione di migrazione dei denti all’interno della bocca; concomitanti dolori oro-facciali (raro e di modesta entità)

 La funzione dell’apparato stomatognatico è compromessa in modo significativo, ma soltanto per il disagio soggettivo, non per limiti o disarmonie di rilevanza clinica obiettiva. Non si rilevano infatti evidenti problemi occlusali, dentali, parodontali, alle articolazioni temporo-mandibolari e ai muscoli masticatori. Spesso i pazienti riferiscono che i sintomi sono insorti in seguito a trattamenti odontoiatrici: restauri conservativi, corone protesiche fisse, protesi rimovibili parziali o complete, avulsioni dentarie, molaggi selettivi, terapie ortodontiche o utilizzo di bite occlusali. Per quanto riguarda gli aspetti psicologici sono  riferiti eventi di depressione, ansia, disturbi somatoformi e personalità ossessivo-compulsive. Spesso i pazienti con SOP  lamentano  problemi estetici, a volte notando asimmetrie inesistenti o riferibili alla norma (dismorfofobia). I pazienti con SOP, si rivolgono a diversi professionisti per avere ulteriori opinioni e richiedere nuovi interventi odontoiatrici, naturalmente senza successo.  Correttamente Molina & Viscuso osservano: “Quasi sempre iniziano la visita con un racconto prolisso e tedioso, ricco di minuziosi   particolari, della propria storia clinica che molte volte presentano anche in forma scritta. In genere manifestano disappunto verso l’operato dei vari dentisti che li hanno curati precedentemente e non raramente riferiscono di aver intrapreso dei contenziosi di carattere medico legale. Poiché normalmente si “documentano”, sentendo pareri o raccogliendo informazioni su internet, quasi sempre danno suggerimenti al professionista su cosa bisognerebbe fare per ripristinare un’occlusione corretta. Se il dentista, sospettando trattarsi di una disestesia occlusale, rifiuta di effettuare gli interventi, diventano aggressivi. Qualora il dentista, malauguratamente, intraprenda delle cure, con la presunzione che i disturbi siano di natura occlusale e che i professionisti che sono intervenuti precedentemente non siano stati competenti, entra in un circolo vizioso che, come detto, non porta alla risoluzione del problema anzi, quasi sempre, peggiora il quadro clinico.”

Il senso occlusale positivo – Un caso di coscienza (seconda parte): dinamiche neuropsichiche

Corpuscolo di Pacini
Giorgio Magnano e Vittorio Magnano

La scuola fenomenologica fondata da Husserl verso la fine del XIX secolo e a cui si rifaranno concettualmente buona parte delle successive correnti psicodinamiche, affermava grosso modo che la coscienza umana si struttura oscillando fra due eventi : il corpo e il mondo. In condizioni normali la nostra intenzionalità e quindi attenzione è rivolta verso il mondo (ricerca di cibo, di partner, accudimento della prole, cura dell’habitat e, successivamente, attività ludiche e ricreative varie). Del nostro corpo, in condizioni di salute, abbiamo una consapevolezza inconscia, si potrebbe dire scontata. Ossia la nostra coscienza attiva vive sul corpo e intorno al corpo con uno stato di quiescenza potremmo dire automatica, inconscia. La nostra intenzionalità conscia è rivolta verso il mondo, l’ambiente in cui il nostro corpo vive. A volte la via migliore per risolvere un problema  è porsi la domanda corretta. Che cosa è dunque la coscienza? La coscienza non è un oggetto. Non esiste nel nostro cervello un centro della coscienza perché essa è un processo e soltanto in tale prospettiva è  indagabile dalla scienza. Tuttavia la soggettività del processo non è indagabile, ma solo raccontabile. Questa è già una prima constatazione importante. Ogni evento cosciente possiede un unico “punto di vista” dai contenuti definiti e non condivisibile. Il senso occlusale positivo (SOP) è una percezione soggettiva, come lo  è il dolore. Curare una soggettività con un intervento oggettivo è solo una scommessa. Possiamo pulire e suturare una ferita con risultati evidenti, ma non possiamo curarne con la stessa sicurezza il dolore che ne consegue. Inoltre la coscienza non sempre corrisponde alla realtà. Il pensiero astratto, il linguaggio interiore  e l’immaginazione ci dimostrano che è possibile costruire una percezione  cosciente anche senza la presenza di stimoli esterni adeguati; i sogni ne sono la dimostrazione. Essi possiedono spesso le  caratteristiche comuni a tutte le manifestazioni fenomenologiche,  ossia privatezza, unità e coerenza. Ciò deriva da una caratteristica dei sistemi nervosi superiori, presente dai mammiferi e che assurge a prevalenza nell’uomo, ossia la capacità di produzione autonoma degli stimoli, la quale facoltà si fonda a sua volta su facoltà mnesiche. Gli esseri umani possiedono memoria e predittività che da sole sono capaci di produrre stimoli senza l’intervento di altri eventi adeguati provenienti dal mondo. Quale è il nesso fra queste considerazioni con il SOP?  Perché talvolta piccole variazione nella  qualità del contatto fra i denti possono innescare momenti ossessivi tanto ingombranti? In biologia la morfologia è quasi sempre la strada maestra per comprendere la funzione. Occorre allora proporre alcune considerazioni non proprio scontate su aspetti anatomici molto banali. Analizziamo la struttura del dente. Si tratta di un oggetto di matrice esodermica (smalto e dentina) che racchiude una polpa con fibre nervose nude. E’ quindi una struttura molto simile a quella  dei  recettori capsulati (Pacini, Meissner, Krause ecc), ossia una fibra amielinica  (nuda) ricoperta da un tessuto di altra origine a schermo del contatto diretto fra stimolo e fibra che scatenerebbe un potenziale ad elevata frequenza, quindi causale di dolore. Infatti qualsiasi stimolo anche lieve applicato alla polpa dentale genera dolore. Il dolore è quindi insito nel mezzo trasmissivo, non nella forza dello stimolo. Il dente, dal punto di vista strettamente strutturale, si può considerare un  recettore capsulato. Siamo quindi al cospetto di un recettore immerso in un contenitore (l’alveolo) ricchissimo di recettori (tutti quelli parodontali). Le fibre sensitive afferenti a partenza da questo insieme raggiungono attraverso il talamo e altre stazioni, la circonvoluzione parietale ascendente dove interessano una vastissima porzione della rappresentazione somatosensitiva. Quindi, riassumendo: un organo che è un recettore, immerso in un pozzo di recettori che  invia una grande quantità di stimoli sensoriali in un’area somato-sensitiva estremamente estesa. La sensibilità dentale raggiunge i 2 micron, molto inferiore alle cartine da articolazione più fini a disposizione del dentista che sono di 8 micron. Ed ecco anche il motivo per cui le riabilitazione su impianti raramente provocano SOP. Perché l’impianto è sensitivamente inerte. D’altronde anche elementi protesici su denti naturali,  eseguiti con correttezza occlusale, possono dare SOP. Talvolta è sufficiente una differente qualità di contatto dovuta a materiale artificiale (con speciale riguardo alla ceramica che è dura) per causare  il SOP.

Se l’esame morfologico lo spostiamo sul sistema nervoso  scaturiscono altre osservazioni interessanti. La parte posteriore del sistema talamo-corticale , la corteccia parietale, per esempio, è implicata essenzialmente nella percezione, in sintesi alla sensibilità, mentre la parte anteriore , la corteccia frontale, è deputata all’azione e alla pianificazione, in sintesi alla motilità. Entrambe le aree hanno estensione più o meno equivalente e i gruppi neuronali con sedi differenti, ma simili specificità, sono di prevalenza connessi fra loro. Si potrebbe quindi affermare che SOP e parafunzione occlusale (bruxismo e stringimento) sono in relazione reciproca dal punto di vista rispettivo della sensibilità e del movimento, un po’ come lo potrebbero essere emicrania ed epilessia.

E’ opportuno, a questo punto fare un breve accenno ai meccanismi di rinforzo. La loro attivazione determina il rilascio diffuso nelle aree interessate da una percezione o da un movimento più volte ripetuto, di neuromodulatori che influenzano l’attività e la plasticità neurali; fanno cioè variare la forza funzionale delle sinapsi producendo risposte adattative nei circuiti neurali. Questi rinforzi progressivi e cumulativi dei vari circuiti neurali indotti dalla funzione ripetuta, sono stati definiti da Edelman sistemi di valore. Definiamo valori  gli aspetti fenotipici di un organismo selezionati a livello di specie nel corso dell’evoluzione e a livello di individuo nel corso dello sviluppo, e che vincolano gli eventi selettivi somatici, come le variazioni sinaptiche che si verificano nello sviluppo del cervello e con l’esperienza, ossia il contatto col mondo. Quindi se il dente è un organo recettoriale, se sottoposto a stimoli fortemente mirati e ripetuti, condizionerà la selezione di sinapsi atte a rappresentare e all’occorrenza a rinforzare una percezione, la quale potrà diventare un valore dominante. Nel caso del SOP, i circuiti sottesi alla percezione dei propri denti si rinforzano a dismisura. Perché ciò avviene? Abbiamo visto che, in condizioni di normale salute, noi abbiamo del nostro corpo una consapevolezza di sfondo pressocchè inconscia. Ma quando un organo, per qualsiasi motivo traumatico o disfunzionale, diventa causa di dolore o sofferenza, esso esce dal corpo e diventa mondo, cioè si desoggettivizza, diventa oggetto e prende il posto di una parte di mondo, polarizzando la nostra intenzionalità e la nostra attenzione e innescando un meccanismo di rinforzo che finisce per discriminare un oggetto o un evento da uno sfondo.  Dal punto di vista psicologico possiamo definire questo sfondo come Proto Sè. Esso rappresenta lo stato del corpo e le sue  relazioni con l’ambiente interno ed esterno sulla base di componenti propriocettive, cinestesiche, somatosensoriali e del sistema nervoso autonomo. A partire da essi verranno elaborati i ricordi successivi basati su segnali dal mondo (non sé).  Nel SOP il valore circuitale sinaptico dell’oggetto (nel nostro caso il contatto dei denti) acquisisce complessità e conquista la forza sufficiente per uscire dal  proto sé e accedere al nucleo dinamico della coscienza. Alcune funzioni del nostro corpo hanno un valore di complessità neurale talmente bassa da non acquisire mai forza per uscire dallo sfondo; per esempio la pressione sanguigna, perché non può in sé generare uno spazio neurale integrato di dimensioni e complessità sufficienti; in sostanza si tratta di un semplice arco riflesso. Altre , come il SOP possono invece farlo, perché sono già di base molto più complessi dell’arco riflesso.

Il senso occlusale positivo – Un caso di coscienza: definizione

Di Giorgio Magnano e Vittorio Magnano

La trattazione si compone di cinque parti. Ne proponiamo quindi cinque puntate.

Per Senso Occlusale Positivo S.O.P. o anche P.O.S., acronimo dall’inglese Positive Occlusal Sense , si intende la percezione perenne dei contatti dentali vissuta come  fonte di disagio e sofferenza. La revisione sistematica della letteratura di Hara e coll. – effettuata su PumMed, Cochrane Library e sui dati della IADR (International Association for Dental Research) – ha  preso, come sinonimi, i termini:

occlusal dysesthesia (disestesia occlusale),

phantom bite (morso fantasma), 

unconfortable bite (morso disagevole), 

unconfortable occlusion (occlusione disagevole),

occlusion neurosis (nevrosi occlusale),

positive occlusal awareness (vigilanza occlusale positiva), 

occlusal hyperawareness (ipervigilanza occlusale),

a cui si può aggiungere

consapevolezza o coscienza occlusale, termine non fra i più popolari, ma che, a nostro parere, meglio si adatta ad una interpretazione nosologica più originale e profonda.

In generale si tratta di un disturbo, non frequente, che insorge a seguito di cure odontoiatriche che includono l’occlusione dei  denti  totale o parziale e che spesso è indipendente dalla qualità ed accuratezza degli interventi stessi. Il paziente riferisce varie modalità di disagio occlusale per periodi che trascendono  l’usualità conseguente a modifiche occlusali e che, come tali, regrediscono in pochi giorni. La letteratura definisce in sei mesi il limite fra normale adattamento occlusale e franca patologia, ma sovente la persistenza di disturbi al di la  di qualche settimana deve essere interpretato come un allarme verso la rilevanza patologica del problema, specialmente se esistono segni di disturbi psicologici concomitanti (personalità con tendenze ossessive, stati d’ansia  o depressione in atto o anche rilevati dall’indagine anamnestica, come vedremo)

La disestesia occlusale fu descritta per la prima volta nel 1976 da Marbach come  “la percezione da parte del paziente di un’occlusione dentale irregolare anche quando il dentista non evidenzia alcuna irregolarità…”. Nella già citata revisione sistematica della letteratura  di Hara e coll.  si da la seguente definizione: “Una sensazione, persistente da  almeno 6 mesi, di occlusione dentale non confortevole, la quale non corrisponde ad alterazioni fisiche rilevabili correlate all’occlusione, alla polpa dentale, al parodonto, ai muscoli masticatori o alle articolazioni temporo-mandibolari. Può esservi dolore concomitante, in genere di lieve intensità. I sintomi causano profonda sofferenza e inducono il paziente ad andare alla ricerca di trattamenti odontoiatrici”. Il disturbo può condurre a un insuccesso professionale o, in alcuni casi, a  contenziosi  medico-legali. A questo punto, prima di passare all’analisi dei vari aspetti più squisitamente  clinici, è utile una breve premessa di carattere anatomico, fisiopatologico e psicodinamico. Si tratta di problemi di enorme complessità che spaziano dalla filosofia, all’antropologia, alla psicologia fino alle neuroscienze e che pertanto in questa sede dobbiamo  ridurre a schemi di estrema sintesi. Un’osservazione biologica che si riallaccia all’ipotesi evolutiva è che,  in molti aspetti della conoscenza umana, il fare precede il comprendere. Ma in medicina, al giorno d’oggi e con i mezzi a disposizione, cerchiamo di non agire.

L’ansiolisi endovenosa eseguita dall’odontoiatra: step fondamentali nella chirurgia quotidiana

di Vittorio Magnano

I vantaggi dell’ansiolisi endovenosa svolta direttamente dall’odontoiatra piuttosto che da un medico anestesista sono molteplici. Innanzitutto il trattamento dell’ansia è un percorso che va dalla prima visita fino alla somministrazione dell’antidoto e degli antinfiammatori post-chirurgici. Il trattamento psicologico dell’ansia è parte fondamentale della procedura e un anestesista ha solo un rapporto da consulente con il paziente e può avvalersi delle tecniche di comunicazione e ipnotiche al massimo nella mattina della chirurgia. Inoltre, in caso di complicanze come la amnesia post-operatoria o il riflesso del vomito, l’odontoiatra formato in sedazione cosciente conosce la gestione e la prevenzione delle complicanze, considerando che la responsabilità ricade sempre e comunque sull’odontoiatra o sulla struttura ospitante. Dal punto di vista farmacologico, l’applicazione di un protocollo studiato appositamente per il paziente odontoiatrico (e non riciclato da esperienze ospedaliere o ambulatoriali generiche) garantisce il totale controllo dell’ansiolisi, la quale può talvolta essere somministrata esclusivamente per via gastrointestinale.

Gli step fondamentali della sedazione sono l’identificazione del paziente ansioso, la valutazione clinica preoperatoria e il trattamento dell’ansia.

L’identificazione del paziente ansioso

Il ricorso all’ansiolisi può essere effettuato o in seguito a semplice richiesta del paziente consapevole della sua paura o può essere proposto dall’odontoiatra come corollario al trattamento. In entrambi i casi si procede all’’identificazione del paziente ansioso con l’autovalutazione dello stato di ansia, valutata in sede di colloquio orale, secondo una scala di valutazione da 1 a 10 con 0 “nessuna tranquillità” e 10 “il massimo della tranquillità possibile”.

La valutazione clinica preoperatoria

Per quanto riguarda la valutazione clinica preoperatoria, oltre alla anamnesi patologica e fisiologica completa (unita agli antecedenti personali, dentali e sociali), il paziente viene inquadrato secondo la classificazione ASA per un’analisi generica del rischio. Una valutazione addizionale viene fatta tramite il DRAPES (Dental Risk Assessment and Prognosis Evaluation Scale) che valuta il paziente affetto da patologie mediche o chirurgiche per le quali si devono prendere precauzioni nei trattamenti odontoiatrici. La storia clinica si conclude con un breve esame obiettivo in particolare per quanto riguarda l’accesso venoso al braccio, l’apertura della bocca etc.

Cartella anestesiologica odontoiatrica
Nella cartella anestesiologica sono inclusi i valori della pressione arteriosa e della frequenza respiratoria per fasce di età così come le fasi del DRAPES
La classificazione del rischio ASA è particolarmente importante nel momento della valutazione preoperatoria anestesiologica

Il trattamento dell’ansia

Il trattamento dell’ansia non è solo farmacologico ma comincia già nel colloquio conoscitivo con lo staff e l’odontoiatra, in una stanza quieta e confortevole e non sulla poltrona operatoria. Ancora prima, la sala d’attesa risponde ad alcuni requisiti: è di dimensioni ridotte, le pareti sono tinteggiati con colori neutri come l’azzurro o il grigio chiaro e l’attenzione deve essere catturata da un arredamento che privilegia quadri paesaggistici, scenari rilassanti e piante da interno. Per lo stesso motivo in sala d’attesa non sono presenti immagini che richiamano il trattamento odontoiatrico come strumenti o pinze d’epoca, i quali possono incidere nell’accrescere uno stato di ansia preesistente. La comunicazione stessa dell’odontoiatra verso il paziente deve essere “altruistica”, ad esempio guardando il paziente direttamente in faccia, e deve comprendere una parte non verbale, come ripetere alcuni gesti svolti dal paziente, seppure non in maniera evidente. Tecniche di distrazione o di rilassamento vengono regolarmente svolte nelle sedute odontoiatriche precedenti l’intervento, quali ad esempio la sospensione per un breve tempo di una lunga seduta con l’igienista o tecniche di distrazione video o audio supportate (musica soft e video paesaggistici).

Sala d’attesa di dimensioni ridotte, colori neutri e una pianta da interno
Poster paesaggistici attirano l’attenzione e rilassano il paziente

Esempio di sedazione su paziente di 28 anni per chirurgia estrattiva dei 4 ottavi nella stessa seduta

Il giorno della chirurgia il trattamento farmacologico comincia in sala d’attesa con una presedazione somministrata per via gastrointestinale (1 g Delorazepam > 70 anni, 2 g Delorazepam < 70 anni). Durante 10 minuti si riconferma insieme al paziente la anamnesi e la cartella anestesiologica odontoiatrica con l’autovalutazione dell’ansia. Una volta accomodato in sala chirurgica al paziente viene collegato il monitor multiparametrico (pressione, saturimetria, elettrocardiogramma) e vengono somministrati dosaggi graduali di 2 mg di Diazepam endovena fino a un totale di 10 mg di Diazepam nell’arco di 47 minuti. Dopo 90 minuti e terminato l’intervento vengono somministrati 8 mg di Desametasone (corticoterapia antinfiammatoria) e un antidoto a base di 0,5 mg di Flumazenil.

Covid-19 e tragedia greca

di Giorgio Magnano

Stiamo vivendo una “tragedia”, ma credo che pochi abbiano ben chiaro il
significato di questa parola. Ciò mi ha suggerito qualche riflessione.
L’umanità ha reagito all’attuale pandemia in maniera globale, molto complessa e
con aspetti contraddittori, per il numero di individui potenzialmente coinvolti,
ossia tutti, in una società che ormai è da considerare come una gigantesca tribù
( ma preferirei dire polis, visto come proseguirà questa riflessione) di 7 miliardi
e mezzo di abitanti, comunicanti e interconnessi da una rete tecnologica,
economica, sociale, finanziaria e commerciale di una complessità enorme.
Questa mega-polis è anche responsabile delle ambiguità e delle contraddizioni a
cui gli esseri umani hanno dovuto e dovranno rendere conto dopo la reazione
acuta al fatto pandemico. E in effetti una delle prime aporie che sono emerse è
stata la scelta fra la salute dei singoli individui e le conseguenze sociali,
economiche e politiche che ne sarebbero derivate. In un primo momento
(quello che stiamo vivendo adesso, aprile 2020) le priorità sono state la salute e
la vita e ciò, anche in considerazione del tasso di mortalità relativamente basso
dell’infezione, ha porto il fianco a molte riserve, dubbi, critiche e contestazioni.
Tuttavia non è azzardato supporre che se la scelta fosse stata esclusivamente
economico – finanziaria ( come in principio si era prospettato per esempio nel
Regno Unito) le reazioni sarebbero state identiche e comunque non meno nè più
sostenibili. Ma veniamo alla parola tragedia, da cui siamo partiti. Se
consideriamo il numero degli individui che popolano la nostra attuale polis
globale e lo rapportiamo con la polis classica, quella greca del V secolo a.c. ,
non è difficile notare un’analogia quasi ricalcata, con sole differenze
quantitative, fra la situazione attuale, con la relativa reazione a livello di stati e
governi, e quella cosi ben rappresentata in Grecia dalla tragedia attica, ove ai
governi si può sostituire l’eroe tragico, e all’opinione pubblica la coscienza
dell’individuo e quella del fato, o delle menadi, o altro, espresse nel teatro dalla
voce del coro. E’ curioso allora constatare come nulla sia cambiato nelle
dinamiche psicosociali ad onta di un progresso tecnologico immenso, e come
ancora una volta i Greci avessero capito ed anticipato tutto.
Nella tragedia attica l’eroe tragico si trova di fronte ad una situazione nella
quale il proprio carattere, il proprio DAIMON, si trova a confliggere con
altri, pure essi domìni del divino. Che cosa farò? si chiede Oreste. Perchè c’è un
daimon che gli dice che non deve uccidere la madre, e un altro daimon per cui
non può lasciare invendicato il padre. E cioè l’eroe tragico si trova gettato, ( per
dirla alla Heidegger) in una situazione in cui le regioni del divino sono
molteplici e in contraddizione fra loro. Questa è la caratteristica essenziale
della tragedia greca. Analogamente possiamo dire che i governi, o comunque
quell’individuo sociale in questi giorni formato dalla classe dirigente politica, si
trova al cospetto di due demoni di cui uno dice, non si può lasciar morire nessuno, e un secondo che dice, non si può fermare l’economia di un paese o
addirittura del mondo.


L’eroe tragico è chiamato tuttavia a scegliere non fra ambiti di umana
competenza, ma in merito a diverse regioni del divino, TIMAI divine. L’eroe
deve decidere, ma sa che ogni decisione comporta necessariamente il
contraddire un’altra TIME’ pure essa divina. L’eroe tragico lo sa, quindi non è
innocente, mai . Egli è reus nel senso etimologico del termine, perché è
sempre chiamato in re, in causa, nel significato latino di res che è la causa, la
causa dei tribunali. Finisce cosi per rispettare una timé divina, mentre un’altra
timé gli fa causa, esige la sua giustizia. La tragedia ha l’anelito che l’uomo sia
EU DAIMON , cioè che stia bene col suo demone. Ma come può l’uomo stare
bene col suo daimon se le timai divine sono molteplici e in contraddizione fra di
loro? Questa domanda travaglia la tragedia: come può l’uomo corrispondere a
questa situazione senza dare risposte schizo – freniche ossia con due cervelli
separati? E ancora; come può l’uomo invocare innocenza? La giustificazione,
“non l’ho fatto apposta”, “non avevo scelta”,” non lo potevo sapere” è una
puerilità borghese che non ha senso nella tragedia attica. Tu, uomo, sei
colpevole per ciò che fai a prescindere se lo volevi o no fare. Tu sei colpevole
per il destino che rappresenti. Se non si capisce questo non si è capito nulla
della tragedia greca. Non si riesce neanche a vedere il tragico, il quale non sta
nella morte o nelle stragi, ma nel dissidio interiore dell’uomo.
Di certo ogni scaturigine politico-sociale dettata oggi da un dato daimon, è
chiamata in causa dalla voce dell’altro daimon e ne subirà giudizio. Si dovrà
accettare la colpa, senza alcuna superbia. Ma anche qui la tragedia viene in
aiuto. Tutti gli eroi tragici hanno la UBRIS, ( uper, superbia) cioè l’impulso ad
oltrepassare il proprio limite, la propria finitezza. E la superbia per eccellenza
sarebbe proprio quella di ritenersi non – reus, innocente. La tragedia è un
grande fatto civile, un grande rito laico, politico, Se l’uomo saprà affrontare gli
stessi pericoli dell’eroe tragico cercando armonia fra le diverse voci che gli
provengono dal divino, allora farà città e si salverà. Il grande tema finale della
tragedia è proprio questo. Occorre fare città. L’eudaimonia è tutt’uno con la
eupoliteia, la buona città. Questo anelito ad una politeia ben fondata domina
nella tragedia, almeno in Eschilo e in Sofocle.
Oggi le ubris dei singoli partiti o prese di partito in opinioni trasversali a
livello globale, non dovrebbero prevalere su nulla e nessuno. Come l’individuo
della tragedia greca deve uscire dalla propria ubris e fare città, così, in questa
emergenza si deve affrontare la scelta fra isolamento nazionalista e solidarietà
globale. Ma tuttavia ubris c’è, sia a livello europeo ( con atteggiamenti e
affermazioni della BCE, per esempio) che a livello planetario ( per un altro
esempio, la grinta esibita in alcuni frangenti dall’amministrazione statunitense).
L’aporia fra la pandemia in sé e la conseguente crisi economica, sono problemi
che possono essere affrontati efficacemente solo con la cooperazione di tutti i paesi, proprio come avveniva agli individui nella grande agorà della polis
greca.

Le strategie globali che potrebbero essere adottate sono state per esempio
tratteggiate da Harari : “L’umanità deve fare una scelta.[….]. Se sceglierà la
divisione, non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente provocherà
catastrofi ancora peggiori in futuro. Se sceglierà la solidarietà globale la sua
sarà una vittoria non solo sul nuovo coronavirus, ma anche su tutte le
epidemie future e sulle crisi che potrebbero scoppiare in questo secolo.”
E ancora la tragedia si ferma alla grandiosa domanda presente già in Eschilo:
“Chi sei tu, Zeus? Perché mi parli con discorsi opposti?” E’ la grandiosa
domanda dei DISSOI LOGOI, i discorsi doppi del dio, ma la tragedia non ne da
risposta. E’ a questo punto che in Grecia , nel V secolo, la filosofia cerca di
rispondere alla domanda. La tragedia dice: impara a sopportare la
contraddizione, accontentati di contemplarla. La filosofia invece NO, risponde,
guariscine. Io ti do una teoria (Zeòn orao); io vedo dio, la verità, e attraverso
di essa posso guarirti. . Ma adesso dio non solo non parla più doppiamente, non
parla proprio più. E’ morto. I decreti del presidente hanno chiuso le porte di
dio, le chiese, e il papa ha parlato da solo in una piazza S.Pietro deserta. La
gente non si rivolge più a dio, non può più farlo, proprio come i greci, ad un
tratto, non si rivolsero più alla tragedia. La filosofia nacque dunque dalla
tragedia e si propose di offrire la soluzione ai dubbi e alle problematiche della
tragedia. Da allora la grande filosofia occidentale parla tutta, integralmente, in
questa direzione; da Platone fino alla grande crisi dell’ottocento, fino a
Nietzsche. Oggi la scienza si impone globalmente sulla filosofia, alla quale non
restano che dissertazioni sull’essere su cui indugiano pochi specialisti e qualche
poeta. Quindi mito, tragedia, filosofia, scienza: questo è il cammino del sapere
umano. Nel V secolo a.c., come osserva Nietzsche, con Euripide da un lato e
Socrate dall’altro, la tragedia muore, ammutolisce al cospetto della filosofia.
Analogamente adesso dio è morto ( ancora Nietzsche!), non ucciso, ma a sua
volta ammutolito dalla scienza. Dio non ha più niente da dire. I sacerdoti della
scienza frequentano gli altari dei talk show televisivi e propongono rituali che, a
ben vedere, sono simili a quelli dei vecchi preti: l’eucarestia del vaccino che
salva dal peccato di cui, come il peccato originale, non si è rei, ma eredi; rei
caso mai di diffonderlo. La scienza non propone di sopportare la sofferenza
come la tragedia, ma di eliminarla come la filosofia.
Ma tuttavia anche la scienza ha linguaggi doppi, dissoi logoi: il virus è naturale,
no è stato un errore sfuggito ai laboratori. Il virus cederà al caldo dell’estate, no
avremo nuovi focolai ben peggiori in autunno. L’epidemia sparirà dopo
settanta giorni, no ce lo terremo per anni. Il virus si contrae anche toccando
oggetti esposti, no si trasmette solo attraverso le goccioline. Bisogna indossare
le mascherine, no le mascherine non servono a niente. Bisogna stare a un metro
di distanza, no ci si contagia fino a cinque metri. Il contagio dà immunità, no
non la dà. Il vaccino sarà pronto fra tre mesi, no fra due anni.

Il virus può provocare una polmonite interstiziale, no una coagulazione intravasale
disseminata, eccetera. La tragedia ammutolisce ma i dissoi logoi del dio
passano alla scienza anche se con minore potenza. Nella scienza un logos
falsifica l’altro. Nella tragedia sono sacri entrambi ed è proprio qui il senso
profondo del tragico. Nel dilemma fra biologia ed economia si ripropone adesso
il conflitto del doppio daimon. Dalle tenebre di una crisi emerge intatta
l’essenza della tragedia. Nella terza crisi globale della storia, quella
dell’ottocento, la tragedia si riappropria dei dissoi logoi e rinasce.
Ci prova, nel teatro, con Wagner, proprio mentre Nietzsche ne stigmatizza
l’esistenza e il carattere in filosofia, uccidendo la metafisica e cambiando per
sempre il pensiero occidentale. Adesso, con questo maledetto virus, la tragedia
è tornata di nuovo innegabilmente e meravigliosamente Greca.

La superstizione ha causato l’epidemia di COVID-19?

di Vittorio Magnano

Da dove vengono le epidemie e le pandemie?

La conquista europea delle popolazioni indigene nel Nord e nel Sud America fu meno una funzione di forza militare superiore di quanto non fosse un caso di immunità più forte. La stragrande maggioranza delle morti tra i popoli nativi delle Americhe proveniva da germi portati dal colonialista. Gli europei avevano una storia molto più lunga e più ampia di vita tra gli animali domestici e, di conseguenza, avevano vissuto una lunga serie di epidemie e piaghe, sviluppando immunità lungo il cammino. Quando arrivarono nel Nuovo Mondo, gli europei trasportarono il vaiolo e il morbillo e queste malattie decimarono le popolazioni locali non protette.

Epidemie e pandemie in genere iniziano quando un agente patogeno si sposta da una specie all’altra. Una volta che diventano malattie umane trasmissibili, il loro raggio d’azione dipende dai movimenti e dai comportamenti umani. Animali umani e non umani entrano in contatto in tutto il mondo e, di conseguenza, possono insorgere gravi epidemie quasi ovunque. È impossibile conoscere l’origine del vaiolo perché esiste da almeno tremila anni, e sebbene si presuma che abbia avuto un inizio zoonotico (animale), molto tempo fa è diventato antroponotico, il che significa che gli umani possono trasmetterlo ad altri animali . Il vaiolo fu una malattia devastante nel corso della storia umana fino a quando non fu definitivamente sradicato nel ventesimo secolo dalla vaccinazione di massa.

L’Encephalitis lethargica, o “malattia del sonno”, è emersa contemporaneamente all’influenza spagnola. Una teoria ha suggerito che la condizione era causata dal virus dell’influenza, ma le prove non supportano questa conclusione. La causa dell’encefalite letargica rimane sconosciuta.

C’è un dibattito su come è iniziata l’influenza spagnola, ma un’analisi popolare indica che iniziò in un campo base britannico della prima guerra mondiale nella Francia settentrionale, dove anatre, oche e maiali vivi erano tenuti in stretta vicinanza delle truppe. È noto che l’HIV / AIDS si è trasferito da scimmie e scimpanzé nell’Africa occidentale e centrale. Si ritiene che l’epidemia di influenza asiatica del 1957-1958 sia derivata dalla combinazione di un virus dell’influenza umana H1N1 con un virus aviario H2N2 — probabilmente in un ospite umano ma probabilmente in un’altra specie (ad es. maiale) —risultato in un nuovo virus influenzale combinando aspetti di entrambi.

Oltre a queste, l’epidemia di SARS del 2002 è iniziata in Cina; l’epidemia di influenza suina del 2009 è stata rintracciata nelle fattorie del Messico centrale; l’epidemia di MERS-CoV del 2013 è iniziata in Arabia Saudita; e l’epidemia di Ebola 2014-2016 è emersa in Guinea.

Quindi, è chiaro che epidemie mortali possono venire e verranno da quasi ogni parte del mondo. Inoltre, la scelta di addomesticare gli animali come fonte di cibo ci ha esposto a ulteriori malattie zoonotiche. Se avessimo bisogno di un altro motivo per diventare vegetariani, o smettere di mangiare specie geneticamente simili agli umani, potrebbe essere quello di ridurre la nostra vulnerabilità alle malattie zoonotiche.

L’industria cinese degli animali selvatici


Se c’è una componente culturale allo scoppio a Wuhan, ci sono due ipotesi ragionevoli: (a) la convinzione, fondata sulla medicina tradizionale cinese, che alcuni alimenti e sottoprodotti di origine animale hanno poteri unici per influenzare la salute, producono virilità (in uomini) e la fertilità (nelle donne) e (b) la promozione di animali selvatici esotici come prodotti alimentari di lusso. Il forte richiamo degli animali selvatici, fondato su queste due tendenze culturali, potrebbe avere una connessione con l’attuale focolaio di SARS-CoV-2.

I rimedi di erbe sono stati usati per curare le malattie dall’inizio della storia umana, e ci sono molte forme tradizionali di medicina che si sono evolute nelle culture di tutto il mondo, tra cui Ayurveda in India e Kampo in Giappone. Inoltre, ci sono sistemi tradizionali in Africa, Russia e tra gli aborigeni dell’Australia.

I rimedi di erbe rimangono popolari come medicine alternative e sebbene la maggior parte abbia un valore non dimostrato, alcune delle medicine scientifiche che usiamo oggi – tipicamente in forme sintetiche – originariamente provenivano da piante ed erbe. È noto che l’aspirina è una forma sintetica di una sostanza derivata dalla corteccia del salice, che è stata utilizzata a scopi medicinali per millenni, e l’artemisinina, usata per curare la malaria, proviene da un rimedio a base di erbe cinese che ha anche usato da migliaia di anni . Tuttavia, la grande maggioranza delle medicine nella medicina tradizionale cinese non ha prove scientifiche.

Di particolare importanza per l’epidemia di coronavirus sono l’uso di sostanze derivate da animali selvatici nella medicina tradizionale cinese e la credenza popolare che gli animali selvatici e freschi abbiano benefici per la salute. Due delle sostanze animali che sono particolarmente importanti per la medicina tradizionale cinese sono l’osso di tigre e la bile d’orso, entrambe provenienti da specie in via di estinzione. Sebbene quasi ogni parte della tigre sia considerata in qualche modo salutare, l’osso di tigre è particolarmente popolare a causa delle affermazioni che ripristina l’energia vitale e protegge dalle malattie. L’osso di tigre è spesso mescolato con vino e venduto a un prezzo elevato.

Si pensa che la bile d’orso abbia una serie di benefici per la salute. Il principio attivo della bile di orso è l’acido ursodesossicolico, che si è dimostrato efficace nel trattamento delle malattie del fegato, ma una forma sintetica è disponibile da decenni. Tuttavia, in Cina, gli orsi vengono allevati allo scopo di produrre la bile e all’inizio di marzo 2020 – in modo un po’ sconcertante – la National Health Commission della Cina ha elencato la bile come uno dei numerosi trattamenti per COVID-19. Naturalmente, in questa fase iniziale, non ci sono trattamenti comprovati per COVID-19.


In Cina, esiste una vasta industria di allevamento di orsi ampiamente conosciuta per il suo trattamento crudele degli orsi neri asiatici. Gli orsi allevati per la loro bile vivono le loro vite in gabbie individuali che spesso non sono più grandi dei loro corpi e la bile viene estratta dalle loro cistifellea attraverso un foro aperto nei loro corpi o un catetere impiantato chirurgicamente. Attivisti della fauna selvatica in Cina hanno organizzato campagne per convincere le farmacie a pubblicizzare la loro opposizione alla vendita della bile d’orso. Sebbene l’allevamento di orsi sia illegale in Vietnam, la pratica non è scomparsa e l’allevamento di orsi rimane legale in Cina. Inoltre, nonostante sia protetto dalla legge, molti altri animali selvatici sono offerti come prelibatezze nei mercati e nei ristoranti. Si presume che abbiano vari benefici per la salute, nonostante la mancanza di prove scientifiche a sostegno di queste affermazioni.

Covid-19, alfabetizzazione mediatica e allontanamento dai social media

di Vittorio Magnano –

C’è una tendenza naturale, quasi pavloviana, a seguire da vicino le notizie, specialmente durante i periodi di emergenza come guerre, terrorismo e catastrofi naturali. Le persone sono comprensibilmente alla disperata ricerca di informazioni per tenere al sicuro i loro amici e la famiglia.

Notizie e social media sono inondati da informazioni sulla pandemia Covid-19. Ma non tutte le informazioni sono ugualmente valide, utili o importanti. Gran parte di ciò che è condiviso sui social media su Covid-19 è falso o fuorviante.

Abbiamo una situazione tipo “scenario Goldilocks” parlando di Covid-19. C’è troppo poco, troppo e solo la giusta quantità di informazioni sul virus Covid-19 nelle notizie e nei social media. Sembra paradossale finché non analizziamo ogni tipo di informazione.

Tipi di informazioni Covid-19

Nel pensare allo scoppio dell’epidemia Covid-19 e al diluvio di opinioni, voci e notizie là fuori, è utile analizzare i diversi tipi di informazioni.

1) Informazioni vere

Ciò include le informazioni più importanti e pratiche. Come evitarlo: lavarsi le mani, evitare la folla, non toccare il viso, disinfettare le superfici e così via. Questo tipo di informazioni è stato dimostrato accurato e coerente dall’inizio dell’epidemia. Questa è ovviamente la più piccola categoria di informazioni: banale ma vitale.

2) Informazioni false

Le informazioni false includono una vasta gamma di voci, cure miracolose, disinformazione e così via. Il Covid Resource Center del Center for Inquiry è stato creato proprio per aiutare i giornalisti e il pubblico a sfatare queste false informazioni. Il problema è aggravato dal fatto che le organizzazioni di disinformazione russe – che hanno una lunga e comprovata storia di semina di informazioni false e fuorvianti nei social media in tutto il mondo, e in particolare negli Stati Uniti – hanno preso il sopravvento sul Covid-19.

Come riportato recentemente dalla CNN, “i media statali russi e gli sfoghi pro-Cremlino stanno conducendo una campagna di disinformazione sulla pandemia di Coronavirus per seminare panico e paura in Occidente, hanno avvertito i funzionari dell’UE. L’External Action Service dell’Unione europea, che ricerca e combatte la disinformazione online, ha dichiarato in un rapporto interno che dal 22 gennaio ha registrato quasi 80 casi di disinformazione sull’epidemia di Covid-19 legata ai media pro-Cremlino. L’obiettivo generale della disinformazione del Cremlino è di aggravare la crisi della salute pubblica nei paesi occidentali, in particolare minando la fiducia del pubblico nei sistemi sanitari nazionali, impedendo così una risposta efficace allo scoppio” afferma il rapporto.

3) Speculazione, opinione e congettura

In tempi di incertezza, la previsione e la speculazione dilagano. Le proiezioni minacciose sull’epidemia variano in base all’ordine di grandezza dato che esperti e esperti dei social media condividono il loro pensiero. Naturalmente, i modelli epidemiologici sono validi solo come i dati che li contengono e si basano su molte premesse, variabili e numerose incognite.

Volere conoscere con precisione il futuro è ovviamente una venerabile tradizione. Ma come ha osservato un recente post su Medium scritto da un epidemiologo: “Ecco un semplice fatto: ogni previsione che hai letto sul numero di casi o decessi di COVID-19 è quasi certamente sbagliata. Tutti i modelli sono sbagliati. Alcuni modelli sono utili. È molto semplice tracciare un grafico usando una curva esponenziale e dire a tutti che entro venerdì prossimo ci saranno 10 milioni di casi. È molto più difficile prevedere con precisione le epidemie di malattie infettive. Smettete di creare grafici e metterli online. Smettete di leggere gli articoli di persone ben intenzionate che non hanno idea di cosa stiano facendo. I veri esperti non pubblicano grafici casuali di Excel su Twitter, perché stanno lavorando a pieno ritmo per cercare di capire l’epidemia”.

4) Informazioni vere ma non utili

Infine, esiste un’altra categoria, meno riconosciuta: informazioni vere ma non utili a livello individuale o che potrebbero essere definite “banalmente vere”. Di solito pensiamo che le informazioni false vengano condivise come dannose – e certamente lo sono – ma le informazioni banalmente vere possono anche essere dannose per la salute pubblica.

I media e i social media sono inondati di informazioni che – anche se accurate – sono di scarsa utilità pratica per la persona media. Gran parte delle informazioni non sono utili, nel senso di attuabili o applicabili alla vita quotidiana. È come in medicina e psicologia quello che viene chiamato “significato clinico”: l’importanza pratica di un effetto terapeutico, indipendentemente dal fatto che abbia un effetto reale, genuino, tangibile e evidente sulla vita quotidiana. Una scoperta può essere vera, può essere statisticamente significativa, ma essere insignificante nel mondo reale. Un nuovo medicinale può ridurre il dolore del 5%, ma nessuno lo creerebbe o commercializzerebbe perché non è clinicamente significativo; una riduzione del 5% del dolore non è utile rispetto ad altri antidolorifici con una migliore efficacia.

Un esempio può essere la foto di scaffali di negozi vuoti ampiamente condivisi sui social media, raffiguranti la corsa a materiali di consumo come disinfettanti e carta igienica. Le informazioni sono sia vere che accurate; non vi è alcuna simulazione o messa in scena. Ma non è utile, perché porta all’accrescimento di panico, al contagio sociale e all’accaparramento, poichè le persone percepiscono una minaccia per il loro benessere e trasformano una carenza artificiale in reale.

Un altro esempio è il recente riferimento di Trump al virus Covid-19 come “il virus cinese”. Ignorando il fatto che le malattie non prendono il nome dal luogo in cui emergono, possiamo riconoscere che è tecnicamente accurato che, come affermato da Trump, il Covid-19 è stato rilevato per la prima volta in Cina, ma anche che non è un dettaglio pertinente o utile. Non dà valore aggiunto alla discussione nè aiuta nessuno a capire cos’è la malattia o come affrontarla. Semmai, riferirsi ad esso con termini come “il virus della Cina” o “influenza di Wuhan” è suscettibile di causare confusione e persino fomentare il razzismo.

Prima di credere o condividere informazioni sui social media, ponetevi domande come: È vero? Proviene da una fonte affidabile? Ma ci sono altre domande da porre: anche se può essere vero, è utile o inutile? Promuove l’unità o incoraggia la divisione? Lo stai condividendo perché contiene informazioni pratiche importanti per la salute delle persone? O lo stai condividendo solo per avere qualcosa di cui parlare, un veicolo per condividere le tue opinioni? Il delicato rapporto segnale-rumore è già distorto rispetto alle informazioni utili, essendo annegato da informazioni false, speculazioni, opinioni e informazioni banalmente vere.

Distanziamento dei social media

Mentre l’auto-isolamento dalla malattia (e coloro che potrebbero portarla) è vitale per la salute pubblica, c’è un aspetto meno discusso: l’auto-distanziamento dalle informazioni dei social media sul virus, che è una forma di igiene dei social media. Due metri è una distanza sufficiente nello spazio fisico, ma non si applica al cyberspazio in cui la disinformazione virale si diffonde senza controllo.

L’analogia tra malattia e disinformazione è appropriata. Proprio come puoi essere un vettore per un virus se lo prendi e lo diffondi, puoi essere un vettore per disinformazione e paura. Ma puoi fermarlo evitandolo. Non hai bisogno di aggiornamenti orari sulla maggior parte degli aspetti della pandemia. La maggior parte di ciò che vedi e leggi non è rilevante per te. L’idea non è di ignorare informazioni importanti e utili sul coronavirus; infatti, è esattamente il contrario: distinguere meglio le notizie dal rumore, il pertinente dall’irrilevante.

Durante un periodo in cui le persone sono isolate, è catartico sfogarsi sui social media. Gli esseri umani sono creature sociali e trovano il modo di connettersi anche quando non possono fisicamente. Soprattutto durante un periodo di crisi internazionale, è facile indignarsi per l’uno o l’altro aspetto della pandemia. Tutti hanno opinioni su ciò che viene (o non viene) fatto, cosa dovrebbe (o non dovrebbe) essere fatto. Tutti hanno diritto a tali opinioni, ma dovrebbero essere consapevoli del fatto che quelle opinioni espresse sui social media hanno conseguenze e possono anche danneggiare gli altri, anche se involontariamente. Proprio come è bello uscire fisicamente con altre persone (ma in realtà può essere pericoloso per loro), è bello sfogarsi con gli altri nei propri ambienti sociali (ma può essere pericoloso per loro). Il tuo vapore fa sì che anche gli altri nel tuo feed vengano vaporizzati, e così via. Ancora una volta, è l’analogia con il vettore di malattia.

Non sai chi finirà per vedere i tuoi post e i tuoi commenti (tale è la natura dei post e dei memi “virali”) e mentre tu potresti essere poco suscettibile, altri potrebbero essere più vulnerabili. Proprio come le persone adottano misure per proteggere le persone con un sistema immunitario compromesso, può essere saggio adottare misure simili per proteggere le persone con difese psicologiche più fragili sui social media, coloro che soffrono di ansia, depressione o altri problemi particolarmente delicati in questo momento.

Non si tratta di autocensura. Come qualsiasi altra cosa, le persone possono esprimere sentimenti e preoccupazioni in modi misurati e produttivi, modi che hanno meno (o più) probabilità di danneggiare gli altri (fare riferimento ad esso come “Covid-19” anziché “virus cinese” è un esempio).

Mentre amiamo incolpare i media per la disinformazione siamo meno desiderosi di vedere il colpevole allo specchio. Molte persone, specialmente sui social media, non riescono a riconoscere di essere diventate di fatto punti di notizie attraverso le storie e i post che condividono. I media aiutano a diffondere una miriade di storie di “notizie false”, aiutate allegramente da gente comune come noi. Non possiamo controllare ciò che le organizzazioni di notizie (o chiunque altro) pubblicano o mettono online. Ma possiamo – e in effetti abbiamo l’obbligo di – aiutare a fermare la diffusione della disinformazione in tutte le sue forme.

L’informazione è travolgente, è troppa, è tossica. In psicologia è quello che viene chiamato il Locus of Control. Fondamentalmente si tratta delle cose su cui una persona ha il controllo: se stessa, la sua famiglia, i suoi animali domestici, la maggior parte degli aspetti della sua vita e così via. È psicologicamente salutare concentrarsi su quelle cose su cui puoi fare qualcosa. Non puoi fare nulla per quanti decessi ci siano in Cina o in Italia. Non puoi fare nulla per stabilire se le maschere mediche vengono prodotte e spedite abbastanza rapidamente. Ma puoi fare qualcosa per le cattive informazioni online.

Può essere semplice come non inoltrare, apprezzare o condividere quella dubbia notizia prima di controllare i fatti, soprattutto se quella storia sembra fatta apposta per incoraggiare l’indignazione sociale. Possiamo aiutare a separare la verità dai miti, ma non possiamo costringere le persone a credere alla verità. State al sicuro, praticate l’allontanamento sociale e informatico e lavatevi le mani.

Quale è la differenza fra paura, ansia e angoscia?

di Giorgio e Vittorio Magnano –

Non è facile distinguerne le definizioni,  prova ne è che in tedesco, lingua (al pari del greco) più analitica e logica dell’italiano, i tre concetti (paura, ansia e angoscia) sono espressi con un unico termine: “angst”.Questa parola ritrova una radice indo-europea in agh, presente nel greco ancho (soffoco) e nel latino angina (dolore soffocante); ancora il greco fa anckos  comesofferenza psichica e l’inglese ache, che indica invece un dolore fisico. In italiano dalla stessa radice sono ansia e angoscia (e anche agonia). In effetti  paura, ansia e angoscia sono  tre  diversi sentimenti per  tre forme di sofferenza, intesa come disagio e repulsione al cospetto di un pericolo. Anatomo-funzionalmente  la loro sede è comune ed è nel sistema limbico.  Per inciso la paura  è data da un pericolo presente, determinato e identificato. L’ansia dall’aspettativa  di un  evento supposto come pericolo. L’angoscia è il sentimento sostenuto dal non presente, dal non determinato e non identificato, ossia dal  niente. L’animale prova paura, ma non ansia e tantomeno angoscia. L’angoscia è sempre angoscia di…ma non di questo o di quello. L’angoscia di… è sempre angoscia per...ma non per questo o per quello. Quando il dentista dice al paziente col mal di denti – non c’è niente per cui non posso farci niente – mette la di lui sofferenza (e aspettativa)  al cospetto del niente. Il paziente ha posto al dentista un problema scientifico e il dentista  dà una risposta metafisica gettando il paziente su una  minaccia che non può identificare. Questa è l’angoscia. E’ la paura del niente. L’ente non gli  parla più, diventa indefinibile, perde i suoi contenuti, diventa essere. Il paziente entra in una dimensione metafisica; esce da una dimensione  ontica (dell’ente) ed entra in una ontologica (dell’essere) e quindi passa dalla paura e dall’ansia (ontiche) all’angoscia (ontologica). Il che è peggio perchè non se ne vede soluzione e il dolore può addirittura aumentare.

Paura e ansia in odontoiatria: collocazione contestuale

di Vittorio Magnano

I metodi di trattamento dell’ansia in odontoiatria possono essere psicologici o farmacologici. Analizzeremo questi importanti metodi in successivi articoli, ma prima è importante fare luce su alcuni concetti di paura e ansia.

Esiste una differenza sostanziale fra paura e ansia. La paura è legata a qualcosa di esterno e antropologi e studiosi del comportamento la considerano instintuale, legata alla parte più ancestrale del cervello umano, il sistema limbico. Questo “cervello” è quello filogeneticamente più antico e risale fino a 200 milioni di anni fa, quando i mammiferi si differenziarono dai terapsidi (i dinosauri). La neuroanatomia di mammiferi e rettili in questo stadio è sufficiente per assolvere le funzioni vegetative e motorie integrate in un comportamento sociale elementare, di cui la paura fa parte. E’ un cervello molto semplice e arcaico, un archeopallio. Pertanto i primi uomini (seppure non ci sia mai stato un “primo” uomo) sperimentavano solo la paura ovvero l’istinto di protezione verso un agente esterno o un pericolo. Solo con l’evoluzione della coscienza complessa (e quindi prettamente umana) si è sviluppata l’elaborazione interna di un pericolo o di una paura, ovvero l’ansia. L’evoluzione dell’uomo a animale tecno-sociale che convive in grossi agglomerati urbani di individui non imparentati fra loro (società complesse), permise non solo di non distinguere più paura e ansia, ma persino di confondere l’una con l’altra.

La paura

La paura del dentista è molto più diffusa di quanto si pensi. Uno studio epidemiologico effettuato negli Stati Uniti da Agras e altri ha visto la paura del dentista al quarto posto dopo la paura dei serpenti, dell’altitudine e del temporale. Un altro studio sulle cause della paura di Fiset ha evidenziato nell’ordine l’altitudine, il traumatismo, il dentista, la morte, la malattia, i luoghi chiusi, volare in aereo, viaggiare da soli, il temporale e la solitudine. Se guardiamo anche a studi dei medesimi autori sulla intensità della paura lo scenario non si discosta andando in ordine decrescente di frequenza: paura del dentista, altitudine, morte, traumatismo, aereo, luoghi chiusi, malattia. Questi risultati (e molti altri che non cito) fanno concludere che l’odontoiatra può incontrare soggetti pazienti la cui paura è tale da interferire con il successo dello svolgimento delle terapie e con il benessere stesso della persona, in una relazione-a-due nella quale anche il dentista subisce questa tendenza come angosciante nei suoi medesimi confronti.  

L’ansia

Gli psicoanalisti definiscono l’ansia come una interazione fra le diverse parti della personalità. Gli psicologi la intendono come un vago sentimento che preannuncia l’arrivo di qualcosa di spiacevole. Altri psicologi vedono l’ansia in termini comportamentali, ovvero in relazione alle azioni dell’individuo, ad esempio, per quanto riguarda l’ansia del dentista, in funzione di quanto un paziente eviti la visita o il controllo come conseguenza degli stati emotivi e ansiosi. Sempre considerando le azioni (questa volta dell’operatore), molti studiosi hanno concluso che l’ansia deriva dalla paura delle azioni, ovvero della puntura e del trapano o sensazioni quali la claustrofobia, il soffocamento, l’impotenza, gli strumenti, la sala operatoria. Sussistono anche una serie di cause innate o irrazionali così come fattori comportamentali dell’odontoiatra stesso.