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Istituto Di Ricerca e Formazione – Giorgio Magnano MD – Vittorio Magnano DDS, MSc, BSc

Giorno: 27 Aprile 2020

Covid-19 e tragedia greca

di Giorgio Magnano

Stiamo vivendo una “tragedia”, ma credo che pochi abbiano ben chiaro il
significato di questa parola. Ciò mi ha suggerito qualche riflessione.
L’umanità ha reagito all’attuale pandemia in maniera globale, molto complessa e
con aspetti contraddittori, per il numero di individui potenzialmente coinvolti,
ossia tutti, in una società che ormai è da considerare come una gigantesca tribù
( ma preferirei dire polis, visto come proseguirà questa riflessione) di 7 miliardi
e mezzo di abitanti, comunicanti e interconnessi da una rete tecnologica,
economica, sociale, finanziaria e commerciale di una complessità enorme.
Questa mega-polis è anche responsabile delle ambiguità e delle contraddizioni a
cui gli esseri umani hanno dovuto e dovranno rendere conto dopo la reazione
acuta al fatto pandemico. E in effetti una delle prime aporie che sono emerse è
stata la scelta fra la salute dei singoli individui e le conseguenze sociali,
economiche e politiche che ne sarebbero derivate. In un primo momento
(quello che stiamo vivendo adesso, aprile 2020) le priorità sono state la salute e
la vita e ciò, anche in considerazione del tasso di mortalità relativamente basso
dell’infezione, ha porto il fianco a molte riserve, dubbi, critiche e contestazioni.
Tuttavia non è azzardato supporre che se la scelta fosse stata esclusivamente
economico – finanziaria ( come in principio si era prospettato per esempio nel
Regno Unito) le reazioni sarebbero state identiche e comunque non meno nè più
sostenibili. Ma veniamo alla parola tragedia, da cui siamo partiti. Se
consideriamo il numero degli individui che popolano la nostra attuale polis
globale e lo rapportiamo con la polis classica, quella greca del V secolo a.c. ,
non è difficile notare un’analogia quasi ricalcata, con sole differenze
quantitative, fra la situazione attuale, con la relativa reazione a livello di stati e
governi, e quella cosi ben rappresentata in Grecia dalla tragedia attica, ove ai
governi si può sostituire l’eroe tragico, e all’opinione pubblica la coscienza
dell’individuo e quella del fato, o delle menadi, o altro, espresse nel teatro dalla
voce del coro. E’ curioso allora constatare come nulla sia cambiato nelle
dinamiche psicosociali ad onta di un progresso tecnologico immenso, e come
ancora una volta i Greci avessero capito ed anticipato tutto.
Nella tragedia attica l’eroe tragico si trova di fronte ad una situazione nella
quale il proprio carattere, il proprio DAIMON, si trova a confliggere con
altri, pure essi domìni del divino. Che cosa farò? si chiede Oreste. Perchè c’è un
daimon che gli dice che non deve uccidere la madre, e un altro daimon per cui
non può lasciare invendicato il padre. E cioè l’eroe tragico si trova gettato, ( per
dirla alla Heidegger) in una situazione in cui le regioni del divino sono
molteplici e in contraddizione fra loro. Questa è la caratteristica essenziale
della tragedia greca. Analogamente possiamo dire che i governi, o comunque
quell’individuo sociale in questi giorni formato dalla classe dirigente politica, si
trova al cospetto di due demoni di cui uno dice, non si può lasciar morire nessuno, e un secondo che dice, non si può fermare l’economia di un paese o
addirittura del mondo.


L’eroe tragico è chiamato tuttavia a scegliere non fra ambiti di umana
competenza, ma in merito a diverse regioni del divino, TIMAI divine. L’eroe
deve decidere, ma sa che ogni decisione comporta necessariamente il
contraddire un’altra TIME’ pure essa divina. L’eroe tragico lo sa, quindi non è
innocente, mai . Egli è reus nel senso etimologico del termine, perché è
sempre chiamato in re, in causa, nel significato latino di res che è la causa, la
causa dei tribunali. Finisce cosi per rispettare una timé divina, mentre un’altra
timé gli fa causa, esige la sua giustizia. La tragedia ha l’anelito che l’uomo sia
EU DAIMON , cioè che stia bene col suo demone. Ma come può l’uomo stare
bene col suo daimon se le timai divine sono molteplici e in contraddizione fra di
loro? Questa domanda travaglia la tragedia: come può l’uomo corrispondere a
questa situazione senza dare risposte schizo – freniche ossia con due cervelli
separati? E ancora; come può l’uomo invocare innocenza? La giustificazione,
“non l’ho fatto apposta”, “non avevo scelta”,” non lo potevo sapere” è una
puerilità borghese che non ha senso nella tragedia attica. Tu, uomo, sei
colpevole per ciò che fai a prescindere se lo volevi o no fare. Tu sei colpevole
per il destino che rappresenti. Se non si capisce questo non si è capito nulla
della tragedia greca. Non si riesce neanche a vedere il tragico, il quale non sta
nella morte o nelle stragi, ma nel dissidio interiore dell’uomo.
Di certo ogni scaturigine politico-sociale dettata oggi da un dato daimon, è
chiamata in causa dalla voce dell’altro daimon e ne subirà giudizio. Si dovrà
accettare la colpa, senza alcuna superbia. Ma anche qui la tragedia viene in
aiuto. Tutti gli eroi tragici hanno la UBRIS, ( uper, superbia) cioè l’impulso ad
oltrepassare il proprio limite, la propria finitezza. E la superbia per eccellenza
sarebbe proprio quella di ritenersi non – reus, innocente. La tragedia è un
grande fatto civile, un grande rito laico, politico, Se l’uomo saprà affrontare gli
stessi pericoli dell’eroe tragico cercando armonia fra le diverse voci che gli
provengono dal divino, allora farà città e si salverà. Il grande tema finale della
tragedia è proprio questo. Occorre fare città. L’eudaimonia è tutt’uno con la
eupoliteia, la buona città. Questo anelito ad una politeia ben fondata domina
nella tragedia, almeno in Eschilo e in Sofocle.
Oggi le ubris dei singoli partiti o prese di partito in opinioni trasversali a
livello globale, non dovrebbero prevalere su nulla e nessuno. Come l’individuo
della tragedia greca deve uscire dalla propria ubris e fare città, così, in questa
emergenza si deve affrontare la scelta fra isolamento nazionalista e solidarietà
globale. Ma tuttavia ubris c’è, sia a livello europeo ( con atteggiamenti e
affermazioni della BCE, per esempio) che a livello planetario ( per un altro
esempio, la grinta esibita in alcuni frangenti dall’amministrazione statunitense).
L’aporia fra la pandemia in sé e la conseguente crisi economica, sono problemi
che possono essere affrontati efficacemente solo con la cooperazione di tutti i paesi, proprio come avveniva agli individui nella grande agorà della polis
greca.

Le strategie globali che potrebbero essere adottate sono state per esempio
tratteggiate da Harari : “L’umanità deve fare una scelta.[….]. Se sceglierà la
divisione, non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente provocherà
catastrofi ancora peggiori in futuro. Se sceglierà la solidarietà globale la sua
sarà una vittoria non solo sul nuovo coronavirus, ma anche su tutte le
epidemie future e sulle crisi che potrebbero scoppiare in questo secolo.”
E ancora la tragedia si ferma alla grandiosa domanda presente già in Eschilo:
“Chi sei tu, Zeus? Perché mi parli con discorsi opposti?” E’ la grandiosa
domanda dei DISSOI LOGOI, i discorsi doppi del dio, ma la tragedia non ne da
risposta. E’ a questo punto che in Grecia , nel V secolo, la filosofia cerca di
rispondere alla domanda. La tragedia dice: impara a sopportare la
contraddizione, accontentati di contemplarla. La filosofia invece NO, risponde,
guariscine. Io ti do una teoria (Zeòn orao); io vedo dio, la verità, e attraverso
di essa posso guarirti. . Ma adesso dio non solo non parla più doppiamente, non
parla proprio più. E’ morto. I decreti del presidente hanno chiuso le porte di
dio, le chiese, e il papa ha parlato da solo in una piazza S.Pietro deserta. La
gente non si rivolge più a dio, non può più farlo, proprio come i greci, ad un
tratto, non si rivolsero più alla tragedia. La filosofia nacque dunque dalla
tragedia e si propose di offrire la soluzione ai dubbi e alle problematiche della
tragedia. Da allora la grande filosofia occidentale parla tutta, integralmente, in
questa direzione; da Platone fino alla grande crisi dell’ottocento, fino a
Nietzsche. Oggi la scienza si impone globalmente sulla filosofia, alla quale non
restano che dissertazioni sull’essere su cui indugiano pochi specialisti e qualche
poeta. Quindi mito, tragedia, filosofia, scienza: questo è il cammino del sapere
umano. Nel V secolo a.c., come osserva Nietzsche, con Euripide da un lato e
Socrate dall’altro, la tragedia muore, ammutolisce al cospetto della filosofia.
Analogamente adesso dio è morto ( ancora Nietzsche!), non ucciso, ma a sua
volta ammutolito dalla scienza. Dio non ha più niente da dire. I sacerdoti della
scienza frequentano gli altari dei talk show televisivi e propongono rituali che, a
ben vedere, sono simili a quelli dei vecchi preti: l’eucarestia del vaccino che
salva dal peccato di cui, come il peccato originale, non si è rei, ma eredi; rei
caso mai di diffonderlo. La scienza non propone di sopportare la sofferenza
come la tragedia, ma di eliminarla come la filosofia.
Ma tuttavia anche la scienza ha linguaggi doppi, dissoi logoi: il virus è naturale,
no è stato un errore sfuggito ai laboratori. Il virus cederà al caldo dell’estate, no
avremo nuovi focolai ben peggiori in autunno. L’epidemia sparirà dopo
settanta giorni, no ce lo terremo per anni. Il virus si contrae anche toccando
oggetti esposti, no si trasmette solo attraverso le goccioline. Bisogna indossare
le mascherine, no le mascherine non servono a niente. Bisogna stare a un metro
di distanza, no ci si contagia fino a cinque metri. Il contagio dà immunità, no
non la dà. Il vaccino sarà pronto fra tre mesi, no fra due anni.

Il virus può provocare una polmonite interstiziale, no una coagulazione intravasale
disseminata, eccetera. La tragedia ammutolisce ma i dissoi logoi del dio
passano alla scienza anche se con minore potenza. Nella scienza un logos
falsifica l’altro. Nella tragedia sono sacri entrambi ed è proprio qui il senso
profondo del tragico. Nel dilemma fra biologia ed economia si ripropone adesso
il conflitto del doppio daimon. Dalle tenebre di una crisi emerge intatta
l’essenza della tragedia. Nella terza crisi globale della storia, quella
dell’ottocento, la tragedia si riappropria dei dissoi logoi e rinasce.
Ci prova, nel teatro, con Wagner, proprio mentre Nietzsche ne stigmatizza
l’esistenza e il carattere in filosofia, uccidendo la metafisica e cambiando per
sempre il pensiero occidentale. Adesso, con questo maledetto virus, la tragedia
è tornata di nuovo innegabilmente e meravigliosamente Greca.